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Artes restaura reperti archeologici

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Ad un anno dall’apertura del Museo Archeologico di Carife (Av), proponiamo un articolo sui reperti ceramici esposti restaurati dalle nostre restauratrici di Artes.

Il Museo Archeologico si struttura come un contenitore archeologico territoriale, in cui grande risalto è dato al periodo compreso tra il VI e il III secolo a.C.

I reperti esposti sono stati recuperati nel corso delle indagini archeologiche compiute a Castelbaronia e a Carife negli anni 80 del Novecento.

Gli scavi delle necropoli hanno portato alla luce circa 260 sepolture, alcune delle quali caratterizzate dalla presenza di ricchi corredi funerari, per lo più composti da materiale ceramico, armi in bronzo e ferro, monili.

Si tratta di comuni dell’alta valle del fiume Ufita (Serra di Marco a Castelbaronia, Piano La Sala e Addolorata a Carife).

I rinvenimenti sono riferibili con molta probabilità a un unico insediamento sannitico abitato dalla tribù degli Hirpini

La Valle d’Ufita nella provincia di Avellino ha rappresentato fin dall antichità per le sue caratteristiche geografiche e geomorfologiche una delle vie naturali di transito più agevoli per la diffusione di commerci e fermenti culturali tra il Tirreno e l’Adriatico.  Confinava ad est con la Daunia.  La zona è caratterizzata  da frequentazione antropica grazie all’ ampia piana fertile e testimonia la presenza dell’uomo sin dal neolitico antico( VI – V millennio a.C.).

Alla prima fase insediativa ufitana (tra la metà e la fine del sesto secolo a.C.) risalgono le forme ceramiche più antiche recuperate dalle necropoli e selezionate per l’esposizione, prodotte in ambito domestico e funzionali alla mensa, tra cui olle ovoidi, kantharoi a base piatta e anse a gomito, boccali monoansati, coppe, piatti e scodelle, ollette “a bombarda”. Alla fine dello stesso secolo, però (forse sotto l’influsso di maestranze immigrate da altre regioni) viene attivata a Castel Baronia e poi a Carife anche una produzione locale di forme ceramiche in argilla figulina, lavorate al tornio, caratterizzate da una decorazione bicroma in rosso e in bruno che richiama la stessa tecnica già in uso da tempo in Campania, ma con una sintassi indigena di carattere subgeometrico più semplice: oinochoai a bocca tonda o trilobata, kantharoi con anse sopraelevate “ad orecchioni”, coppe e coppette talvolta monoansate in funzione di cucchiai, ma anche splendide olle biansate e crateri di tipo “laconico” con anse a staffa.

Sempre a partire dagli ultimi decenni del sesto secolo a.C. (forse sotto l’influsso commerciale di Capua) si diffonde il bucchero pesante etrusco

Ma già agli inizi del quinto secolo a.C. il bucchero e la ceramica subgeometrica bicroma vengono gradualmente sostituite da quella a vernice nera di importazione (forse dalle città greche della costa campana) in una prima fase, e successivamente (a partire soprattutto dalla metà del secolo) di imitazione da parte di officine locali con la produzione in particolar modo di kylikes, coppe biansate e monoansate, boccali, mentre continuano ad essere prodotti i kantharoi poi progressivamente sostituiti dagli skyphoi di tipo attico.

Singolare la sopravvivenza in alcune tombe di Piano La Sala di Carife, risalenti alla prima metà del quinto secolo a.C., di forme ceramiche di uso rituale con elementi plastico-decorativi, come i kàntharoi su alto piede e le protomi di canidi su boccali per lo più a vernice nera, retaggio arcaico della corrente culturale di Oliveto-Cairano diffusa nell’Irpina orientale a partire dal settimo secolo a.C.

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