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I colori degli antichi. Lo sapevi che?

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Quanto la storia del gusto ha influenzato la nostra idea sulla policromia della statuaria antica?
Durante il XVIII secolo Winckelmann sosteneva che nelle statue antiche “ un bel corpo sarà(…) tanto più bello quanto più è bianco”. Successivamente si sviluppò un dibattito acceso sul colore nella scultura e nell’architettura antica. Attraverso gli esami dei monumenti della Grecia, alla fine del XIX secolo, si accumularono nuove evidenze. Grandissimo impatto ebbero le scoperte delle korai sull’Acropoli di Atene, la policromia si era conservata grazie al seppellimento seguito dalle distruzioni dell’esercito persiano nel 480 a.C.

Grazie alle indagini scientifiche effettuate sui monumenti oggi abbiamo una conoscenza molto più vasta sui colori e le tecniche utilizzate per dipingere le opere.
Le tracce ritrovate sono di solito esili, ciò è dovuto anche alla natura dei colori applicati su pietra mediante leganti naturali ( chiara d’uovo, caseina o latte di calce) che raramente resistono sia al dilavamento causato dagli agenti atmosferici sia ai vecchi interventi di restauro.
Le tecniche di rilevamento sono diverse e spesso molto sofisticate, affiancate sempre dall’analisi filologica delle fonti e all’occhio esperto dell’archeologo e dei restauratori.

I diversi colori avevano una differente resistenza alle intemperie e quindi il grado di corrosione della pietra è diverso a seconda del pigmento da cui era protetta. Questi dati possono essere raccolti attraverso la tecnica fotografica a luce radente. In alcuni casi viene utilizzata anche la fluorescenza indotta dai raggi UV per rendere visibili le perdute colorazioni attraverso le differenze di risposta in fluorescenza da parte della superficie del marmo.
Se invece le tracce di colore sono conservate in maniera più significativa allora si può cercare di caratterizzare i colori dal punto di vista spettrocolorimetrico.
Nell’antichità non ci si accontentava solo della stesura del colore sulle sculture, venivano impiegati anche pietre di altro colore, marmi, capelli, armi. L’obiettivo era far “presa” sullo spettatore attraverso la cooperazione di forma e colore. Non necessariamente la policromia doveva essere realistica, bisognava esaltare gli elementi più significativi del messaggio che la scultura doveva trasmettere.

Qual’era la tavolozza degli antichi? Avevano varie sostanze a disposizione.
Per il rosso il cinabro era quello più pregiato. Il nome deriva da kinnabari “sangue di drago”, solfuro di mercurio estratto dai giacimenti in Istria e in Andalucia. Era sensibile alla luce e Vitruvio nel suo trattato ci informa che veniva utilizzato con la radice di un arbusto oggi noto come “lacca di garanza”. Molto diffuso era anche l’impiego delle terre colorate, le ocre rosse a base di ossido di ferro, a basso costo. Inoltre da solo con insieme al cinabro era utilizzato anche il minio.

Anche per il giallo e il marrone erano utilizzati vari tipi di ocra. L’arsenico era raro perché era velenoso.
Per l’azzurro era impiegata l’azzurrite estratta nel Sinai, Italia e Spagna. Si ottenevano varie sfumature indaco, azzurro oltremare, blu cobalto e turchese.
Il blu si poteva ottenere anche in maniera sintetica, il procedimento era diffuso in Egitto gia dal 2600-2500 a.C., chiamato blu egiziano o “fritta alessandrina”. Centri di produzione in epoca romana erano a Pozzuoli in Campania.
Il nero si otteneva dalla combustione delle ossa o dai rami di vite.
Anche la doratura a foglie veniva impiegata, verso la fine del periodo classico esistevano statue interamente dorate.

E i leganti? Dalle fonti antiche sappiamo che non avevano molta scelta, tra le sostanze organiche utilizzavano la chiara e il rosso d’uovo, la caseina estratta dal latte. La cera sciolta era utilizzata per la pittura a encausto.

I colori del bianco. Mille anni di colore nella scultura antica. Musei Vaticani. De Luca Editori d’Arte

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