In questi giorni in cui impazza la moda di pane fatto in casa, vogliamo anche noi dare il nostro contributo con una piccola dose di cultura locale.
Nelle numerose botteghe di Napoli e dintorni nel chiedere il pane spesso si usano questi termini: palatone e palatella!
Ma sapete perché?
Nel XVII secolo Napoli era uno dei maggiori regni legati alla corona spagnola. Il sistema fiscale si basava sull’erogazione di gabelle e tasse attraverso cui la corona e la maggior parte delle classi nobili si assicuravano un reddito.
Ogni comune, tranne Napoli che era esente dalle imposte dirette, era tassato in base ai “fuochi”, i nuclei familiari il cui numero era fissato con periodici censimenti. Le imposte indirette erano chiamate “arrendamenti” dalla parola spagnola arrendar.
Tutti i generi alimentari erano sottoposti a gabelle. In città si trovavano quattro qualità di pane: il più pregiato era quello bianco, detto a “rotolo”, quello più comune di farina mista detto “grano e fiore”, quello buono dei casali detto “cafone” e quello di qualità molto scadente detto “d’assisa”.
Il pane era confezionato nei forni e portava uno stampo rilasciato dagli eletti da cui era possibile identificarne la provenienza e doveva essere venduto solo nelle panetterie e a pezzature obbligate: il bianco si vendeva a palatoni e ciampetelle, quello misto e d’assisa, a palate e palatelle, cioè a pezzi grandi quanto una pala e doveva corrispondere a un peso specifico che variò nel tempo: dai 1200 grammi (44 once) a 800 grammi(30 once). Masaniello portò il peso del pane a 32 once e nel tempo scese a 17, tornò a 22 once nel ’68 e a 28 solo cinquant’anni dopo la rivolta.
La vita quotidiana a Napoli ai tempi di Masaniello. N.Leone. Alessandro Polidoro Editore.